Viviamo in un’epoca che ci chiede continuamente di aggiungere.
Più competenze, più nozioni, più informazioni. È la legge non scritta del nostro tempo: accumulare per restare a galla.
Eppure la mente non è un hard disk illimitato. È più simile a una stanza: se continuiamo a riempirla di oggetti senza mai fare ordine, lo spazio diventa impraticabile. La psicologia cognitiva lo aveva già spiegato con la teoria della memoria di lavoro: possiamo trattenere in media 7 elementi alla volta (Miller, 1956). E mentre accumuliamo, perdiamo chiarezza.
Oggi un adulto medio elabora circa 34 GB di informazioni al giorno (Università di San Diego). Numeri che raccontano un paradosso: più siamo informati, meno siamo lucidi.
Non basta parlare di benessere o wellbeing se non impariamo a fare spazio. Perché non sono i nuovi contenuti a salvarci, ma la capacità di togliere quelli inutili. Il decluttering cognitivo diventa allora una forma di igiene mentale: selezionare, alleggerire, ridurre il rumore.
Il superfluo non è solo materiale. È l’eccesso di notifiche che ci interrompe, le notizie ansiogene che si sedimentano, le emozioni non elaborate che tornano a bussare quando non ce lo aspettiamo. Sono relitti mentali che pesano e rallentano.
La psicologia positiva ci ricorda che non si tratta di negare, ma di ampliare lo sguardo. Togliere il superfluo significa lasciare spazio a emozioni e pensieri che nutrono davvero. È un lavoro di selezione, ma anche di consapevolezza: non tutte le informazioni meritano di restare, non tutte le parole devono diventare nostre.
Decluttering cognitivo significa domandarsi: mi serve davvero?, imparare a scrivere ciò che vogliamo lasciare andare, ridurre la dipendenza digitale e praticare defusione cognitiva nelle relazioni. Sono gesti piccoli, ma capaci di trasformare la qualità delle giornate.
Forse il segreto per apprendere non è aggiungere altro, ma imparare a togliere.
Come in un giardino: solo eliminando le erbacce possiamo permettere ai fiori di crescere.
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